INTRODUZIONE ALL’ANTI EVOLUZIONISMO – PARTE 1

dna

Ispirato liberamente, tradotto liberamente, e rielaborato dai lavori degli scienziati John F. Ashton (“Evolution Impossible” cap.4) e Don Batten

 

INTRODUZIONE: Il concetto di evoluzione è parte dell’insegnamento di biologia in molti paesi nel mondo.

Il documentario come la serie della BBC “The Genius of Charles Darwin” presenta l’evoluzione ad un pubblico generale sostenendo che l’evoluzione sia un “fatto”.

Ma è proprio vero che l’evoluzione è un “fatto”?

In questo articolo esamineremo il fondamento base della teoria darwnista, ovvero il meccanismo con il quale essa funziona. La teoria darwinista, o meglio, neo-darwinista infatti sostiene che per via di mutazioni genetiche casuali selezionate dalla selezione naturale si possano formare forme di vita totalmente nuove.

Con questo meccanismo gli evoluzionisti cercano di spiegare come un microbo, ad esempio, possa essere diventato un microbiologo. Nel 2009 il divulgatore ateo Richard Dawkins scrisse il libro “The Greatest Show on Earth: The Evidence for Evolution” in cui illustrava tutte le prove che lui credeva sostengano la teoria neodarwinista.

Esaminare il meccanismo secondo il quale accade il processo evolutivo, è vitale nella valutazione della veridicità di questa teoria. Infatti il meccanismo è la prima condizione necessaria per una spiegazione naturalistica dell’origine della vita, se infatti quello non funziona, il tutto crolla.

In questo articolo esamineremo se veramente mutazione e selezione naturale assieme sono capaci o meno di produrre l’immenso ammontare di informazione genetica necessaria per generare tutta la diversità di vita che esiste oggi, così come quella che ha vissuto un tempo. L’informazione genetica responsabile per la formazione e la funzione di qualsiasi organismo è codificata nel DNA dello stesso. Questo contiene l’informazione necessaria per costituire tutti i componimenti fisici di un organismo: la sua pelle o corazza, i suoi organi interni e esterni, le sue ossa, guscio, radici, foglie, fiori, forma fisica, colore, pelosità, sistema digerente, cervello, sistema nervoso, sistema riproduttivo, sistema visivo, sistema immunitario e così via sono tutti codificati nel DNA. Inoltre, esistono innumerevoli enzimi individuali, proteine, ormoni, e altre molecole specifiche come le tossine difensive, anch’essi caratterizzati da informazioni contenute nel DNA.

La teoria dell’evoluzione richiede che tutta questa specifica informazione contenuta nel DNA per ogni tipo di animale o pianta, fungo o batterio, sia nata come risultato di condizioni del tutto casuali. Inoltre sostiene che i predatori, rimuovendo nuova informazione genetica meno vantaggiosa, lascino affermarsi le nuove mutazioni genetiche benefiche che sono sempre generate da casuali e spontanee mutazioni.

La sfida alla teoria dell’evoluzione consiste principalmente nel dimostrare che mutazioni casuali, assieme alla selezione naturale, sono incapaci di produrre il livello e la quantità di informazione genetica richiesta da milioni di organismi di specie differenti. Una volta dimostrata l’impossibilità di un aumento dell’informazione genetica attraverso i predetti meccanismi l’evoluzione sarà dimostrata falsa.

Esaminiamo quindi le evidenze che vengono proposte oggi dagli evoluzionisti, lasciando stare le teoriche ed ipotetiche e immaginarie costruzioni del passato.

Il termine “evoluzione” molte volte è usato per descrivere cambiamenti graduali che possono accadere in una popolazione. Come detto prima, cambiamenti morfologici e cambiamenti di funzionamento derivano da cambiamenti nell’informazione genetica codificata nel DNA dell’organismo. Quindi cambiare la sequenza del codice del DNA ha il potenziale di causare una mutazione ( questa è la base di molte tecniche di allevamento di piante usate dall’ingegneria genetica).

Ci sono tre tipi di modi in cui l’informazione genetica nel DNA può essere cambiata e quindi generare una mutazione che potrebbe contribuire all’evoluzione.

 

 

EVOLUZIONE DI TIPO 1 E 2 (ADATTAMENTO, VARIAZIONE ECC.) ESEMPI DI CAMBIAMENTI NON DARWINISTI

Tipo 1 di evoluzione: Questo tipo di evoluzione comporta che nessuna nuova informazione genetica venga a formarsi. Quasi sempre comporta la perdita di informazione genetica preesistente che risulta in cambiamenti al codice genetico ereditario nella prole, rendendolo diverso dall’antenato. Per esempio se una popolazione di topi, che sta portando geni sia per il pelo chiaro e sia per quello scuro, si sposta verso un’area sabbiosa di colore chiaro dove gufi possono vedere e uccidere i topi scuri più facilmente, dopo un certo periodo di tempo ci saranno molti meno topi scuri.

Nel frattempo, i topi di colore chiaro continueranno a riprodursi, e sempre meno topi che portano geni di colore scuro esisteranno cosicché la selezione naturale per i topi di colore chiaro sarà avvenuta. Però alcuni topi potrebbero ancora portare i geni del pelo scuro, e se qualcuno dei topi di colore chiaro migrasse su un suolo scuro nel tempo i futuri topi scuri si diffonderebbero. Questi hanno ora una migliore possibilità di sopravvivere al gufo predatore, creando una situazione in cui i topi chiari si “evolvono” in topi scuri.

In questo caso non abbiamo alcuna nuova informazione genetica creata. Invece abbiamo cambi evoluzionistici prodotti dalla selezione naturale che rimuove informazione genetica o abbiamo cambiamenti ottenuti da un’informazione genetica espressa raramente o molto meno frequentemente, che favorisce la sopravvivenza in un nuovo habitat.

Questo meccanismo spiega i tipici esempi di “evidenza” che sono presentati a favore dell’evoluzione;  come per esempio i maschi pesci rossi che assumono colori accesi quando messi in torrenti dove ci sono pochi predatori. Nei torrenti con una grande popolazione di predatori, i pesci rossi maschi facilmente intravedibili con colori accesi sono mangiati prima che possano riprodursi, così allora pesci principalmente di colore spento si riproducono. Poiché i pesci rossi vengono da genitori che contengono una diversità di materiale genetico alcuni di questi pesci nati con colori “sbiaditi” porteranno i geni al loro interno per colori più accesi. Quando alcuni di questi pesci dai colori spenti si trovano in un bacino d’acqua con pochi predatori, quelli dai colori più accesi sopravvivono. Ma poiché questi pesci attirano più femmine, producono più prole che porta i geni dei colori accesi, e per mezzo di questo processo la natura seleziona pesci maschi dai colori più accesi a scapito di quelli dai colori spenti. Ancora, questa evoluzione di pesci maschi dai colori accesi non comporta alcuna aggiunta di informazione genetica.

Un altro punto importante da notare è che in questi esempi di evoluzione, e altri simili inseriti nei libri scolastici di biologia, i cambiamenti riguardavano sempre lo stesso (tipo) di organismo: i topi sono rimasti sempre topi, i pesci rossi sono rimasti sempre pesci rossi, le falene sono sempre rimaste falene, le rane sempre rane. Non vi è alcun esempio di falene che si evolvono in mosche o viceversa. In altre parole la perdita di informazione genetica non porta ad un nuovo tipo di organismo, ma solo ad una variante di quello stesso tipo di organismo.

Differenti effetti ambientali possono azionare il processo di selezione naturale usando informazione genetica già esistente. Cambiamenti in un organismo possono essere causati dall’accendere (o dallo spegnere) l’attività di un gene esistente o di geni all’interno del DNA di un organismo. Questo significa che questi geni ora producono la loro informazione codificata disponibile per essere replicata, e dunque più informazione genetica diventa disponibile da usare all’organismo. Per esempio, nel caso dei pesci, la pressione ambientale nella forma di pressione del predatore può portare allo spegnimento di un gene della produzione del colore. L’informazione genetica è ancora presente, ma non è attiva. Quando i predatori sono rimossi, la pressione ambientale è rimossa e l’informazione genetica dei colori torna ad essere attiva. I geni quindi possono essere attivati o spenti da altri geni, o per sostanze chimiche presenti nella cellula. Per esempio, un particolare gene x può ridurre o spegnere totalmente l’attività di un gene y. Se il gene x è danneggiato da fattori ambientali, come ad esempio radiazioni o reazioni chimiche, la funzione di soppressione che il gene x esercitava sparisce, e il gene y si attiva con la sua informazione preesistente. Sembrerà quindi che nell’organismo nasce un nuovo tratto, ma in realtà tutta la sua codificazione era già presente.

La tecnica di distruggere informazione genetica al fine di produrre nuove caratteristiche è usata da molti allevatori di piante. La loro tecnica consiste nel esporre a radiazioni ionizzanti o a reazioni chimiche milioni di semi. Questi semi come risultato avranno un DNA danneggiato, magari nel modo tale da distruggere quel gene che noi abbiamo chiamato x, al fine di attivare la funzione del gene y. Questi semi vengono poi piantati per vedere se effettivamente caratteristiche benefiche si sono formate. Per esempio se le reazioni chimiche distruggono i geni della proteina SGP-1 che è responsabile per la sintesi delle catene ramificate di amido nel seme, le piante discendenti produrranno un grano (per esempio il mais) che ha meno catene ramificate e quindi un indice glicemico più basso rispetto al mais normale.

Uno dei motivi per il quale gli allevatori collezionano semi da luoghi isolati e primitivi dove pochissimo allevamento e selezione di piante è avvenuto in passato è perché questi semi hanno più probabilità di contenere una più vasta diversità di informazione genetica preesistente, in confronto a varietà domestiche.

“Spegnere geni” nelle specie in natura incrementa la possibilità di produrre una nuova caratteristica benefica nelle generazioni sucessive. Però anche in questi casi stiamo parlando di perdita delle informazioni preesistenti, nessuna informazione genetica nuova viene creata. Anche cambiamenti nell’ambiente della cellula che esercitano pressione sulla forma della molecola del DNA possono influenzare l’attività dell’informazione genetica. Ad esempio, per i batteri, anche cambiamenti ambientali attorno ad una cellula che incidono sulla forma fisica dell’avvolgimento della grande molecola del DNA, possono causare un’attivazione o uno spegnimento di un gene, o meglio dell’espressione di un gene. In questo modo i batteri possono far fronte a improvvisi e gravi cambiamenti nell’ambiente circostante e sopravvivere. Questa capacità usa informazione genetica preesistente, nessuna nuova informazione è creata.

Cambiamenti nel DNA come risultato di un errore quando il DNA della cellula è replicata possono accadere, creando una cellula con un DNA leggeremente alterato. Anche il dislocamento di una piccola parte di DNA da una parte all’altra nel codice può creare cambiamenti. Tutti questi cambiamenti possono produrre mutazioni che rientrano nel tipo 1 di evoluzione.

Il professor Richard Dawkins sostiene che la resistenza all’HIV riscontrata in alcune donne a Nairobi provi l’evoluzione (Richard Dawkins, The Genius of Charles Darwin, parte 1, documentario). Però questa resistenza è un classico caso di mutazione che comporta una perdita di informazione: l’osservata resistenza all’HIV è dovuta alla mutazione del gene umano CCR5 nelle donne. Questa mutazione provoca la cancellazione di 32 coppie di basi di informazione. Questa perdita di informazioni causa il non funzionamento di un recettore per l’HIV (ovvero il modo in cui il virus riesce ad entrare nella cellula. Pensate ad una porta, la quale è l’unico modo per entrare nella cellula) assieme ad una ridotta espressione del recettore che ferma o rallenta la trasmissione della malattia. In questo la mutazione nelle cellule della donna ha portato ad un effetto benefico, ma questo è dovuto da una perdita di informazione preesistente. Quindi questo non è un esempio di come nuova informazione possa formarsi, infatti la creazione di nuova informazione è necessaria per l’evoluzione di nuovi organi e organismi. Quindi in nessun modo questo è un esempio di come una cellula primordiale possa diventare un qualcosa che la cellula in questione precedentemente non era.

Nella maggior parte dei casi le mutazioni sono dannose, e molte sono responsabili di malattie ereditarie. Molti tumori e malattie sono causati dal tipo di mutazioni descritte sopra, ovvero mutazioni che non fanno altro che distruggere informazione.

L’evoluzione di tipo 1 è quindi l’esempio più comune per dimostrare che l’evoluzione darwiniana sia un fatto, ma come abbiamo visto questo tipo di meccanismo distruttivo non è in grado di formare alcun tipo di nuovo organismo.

Tipo 2 di evoluzione: Questo tipo di evoluzione consiste nel trasferimento di nuova informazione genetica da un organismo all’altro. Ovvero nuova informazione addizionale entra nel DNA di un organismo tramite, per esempio, plasmidi che sono in grado di trasportare geni.

Il plasimidio R100, che è composto da 90 000 coppie di basi nucleotidiche, trasporta geni per la resistenza al sulfunamide, alla streptomicina e ad altri antibiotici. Questo plasmidio è in grado di trasferirsi dall’innocuo batterio Escheria ad un nocivo batterio di Salmonella. L’inserzione di questi geni comporta “l’evoluzione” di una nuova specie di salmonella resistente all’antibiotico.

Un altro esempio è quello del potenzialmente letale Escherichia Coli detto anche E.ColiO157:H7 che è creduto essersi evoluto dal batterio E.Coli, come risultato di un trasferimento di geni tossinici provenienti da un altro batterio. Il tipo 2 di evoluzione non è un esempio di creazione di informazione ma bensì un trasferimento di informazione preesistente che va da un organismo all’altro. È interessante vedere come ogni specie abbia dei meccanismi per preservare la propria integrità. Alcuni di questi meccanismi evitano che due differenti specie possano riprodursi o riprodurre prole fertile. Questo è un esempio di un meccanismo con un effetto anti-evoluzionistico osservabile in natura. Per esempio, a proposito della riproduzione sessuale che si effettua con un ovulo e uno spermatozoo, si osserva che la superfice dell’ovulo contiene proteine specifiche le quali si legano solo a specifiche molecole complementari della superfice delle cellule dello sperma della stessa specie. Ogni embrione ibrido che si dovesse formare, quasi sempre o viene abortito o si sviluppa in un adulto sterile. Un tipo simile di sistema di riconoscimento molecolare è presente nella piante, ciò significa che i granuli pollinici soffiati dal vento non germinano sullo stigma (la parte femminile del fiore) di una differente specie di piante.

Gli ibridi naturali sono esempi del secondo tipo di “evoluzione”, ma anche in questo caso si tratta solo di un trasferimento di informazione genetica preesistente.

 

 

CIO’ CHE GLI EVOLUZIONISTI DORVEBBERO PRODURRE COME PROVA

Tipo 3 di evoluzione Questo tipo di evoluzione comporterebbe una generazione di informazioni genetiche totalmente nuove e utili all’interno del codice del DNA di un organismo, causata da un processo naturalistico, il cui esito consiste in una funzione completamente nuova, che non esisteva precedentemente. Un esempio potrebbe essere un verme che si evolve in modo tale da avere arti e articolazioni per poter camminare oppure da sviluppare occhi per vedere. In realtà queste nuove funzioni richiederebbero necessariamente quantità enormi di nuova informazione genetica, ad esempio, nel caso di un arto, per codificare tutte le parti dello stesso, con i loro rispettivi meccanismi di controllo, e di programmazione del cervello per usarle. In modo analogo, per permettere la comparsa, ad esempio, di un occhio, tutti i componenti, il cristallino, i meccanismi di messa a fuoco, il nervo ottico, il rifornimento di sangue e così via, dovrebbero essere codificati nel DNA dell’organismo.

Il biofisico Lee Spetner, che insegnò sia all’università di Harvard, che all’università di John Hopkins, afferma che questo tipo di evoluzione, appunto il tipo 3, non è mai stato osservato (Lee Spetner, “Not by chance!”, p 107). Infatti non c’è alcun meccanismo dimostrato che spieghi la formazione di grandi quantità di nuova informazione genetica richiesta per la produzione di grandi cambiamenti fenotipici, come lo spuntare di arti aventi articolazioni, durante, secondo l’immaginario evoluzionistico, il periodo in cui, per esempio, si sarebbero evoluti gli artropodi, che sono i crostacei, gli insetti e i ragni. Queste sfide significative nello spiegare come questi tipi di evoluzione potrebbero essere avvenuti sono ora un grande e fondamentale argomento di studio della biologia moderna.

Ad oggi gli evoluzionisti non sono in grado di fornire nessun esempio di queste nuove informazioni, che sarebbero invece necessarie per supportare l’evoluzione darwiniana. La spiegazione di come quindi si possano formare, da organismi più semplici, organismi molto più complessi è indispensabile per una teoria che asserisce che tale cosa sia realmente avvenuta.

Nel libro di Dawkins, uno dei testi considerati più convincenti per provare il darwinismo, “The Greatest Show on Earth”, si trova solo un esempio che può essere considerato fare parte di questo tipo di evoluzione. In 470 pagine di libro infatti, l’autore non fa altro che citare esempi di evoluzione che possono tutti ricadere nei primi due tipi di cui abbiamo parlato prima; solo a pagina 131 parla di un esempio di un organismo che acquisisce informazione genetica funzionale non precedentemente esistente.

Questo esempio è un esperimento effettuato dal biologo Richard Lenski.

Vediamo in dettaglio il suo esperimento: Lenski e un equipe di ricercatori studiò per trent’anni le mutazioni di 12 separate popolazioni di batteri Escheria, inizialmente identiche tra di loro.

Durante questo periodo di trent’anni si susseguirono decine di migliaia di generazioni, subendo, nel complesso miliardi di mutazioni. Questo fu come avere la possibilità di provare ogni mutazione puntiforme per i 4.6 milioni di coppie di basi azotate del DNA del batterio. Eppure l’unico significativo tipo di cambiamento evolutivo fu che dopo più di 31.500 generazioni in una delle 12 popolazioni si è trovata una mutazione che permise al batterio di usare il citrato chimico come fonte di cibo, infatti una caratteristica particolare del batterio E.Coli è che normalmente non può usare il citrato come fonte di cibo. Nonostante l’E.Coli abbia il metabolismo interno finalizzato a utilizzare il citrato, esso non ha una molecola trasportatrice. Questa mutazione semplicemente ha portato alla disponibilità dell’informazione genetica per generare la molecola trasportatrice.

Ma andiamo nel dettaglio dell’esperimento: Lenski si aspettava di vedere velocemente l’evoluzione in atto. Questa era una aspettativa appropriata per coloro che credono nell’evoluzione, poiché i batteri si riproducono velocemente e hanno enormi popolazioni. I batteri possono anche sostenere tassi di mutazione estremamente più alti rispetto a organismi con genomi molto più grandi, come i vertebrati. Tutto questo, secondo il neo-Darwinismo, porterebbe alla quasi certezza di poter osservare molti casi di evoluzione “dal vivo” (anziché immaginandoli accaduti in un passato inosservabile). Con tempi generazionali brevi, in 20 anni si susseguirono 44.000 generazioni, ovvero l’equivalente di qualche milione di anni di generazioni di una popolazione umana. Tuttavia le opportunità evoluzionistiche per gli umani sarebbero molto, ma di gran lunga minori, dovute ai piccoli numeri della popolazione che limitano il numero di possibilità di mutazione; e a un genoma di gran lunga più grande e estremamente più complesso, che non può sostenere un simile tasso di mutazione senza affrontare un “errore catastrofico” (ovvero l’estinzione); anche la riproduzione sessuale porta ad una significativa possibilità di fallire nella trasmissione di una mutazione benefica (positiva).

Dopo molti anni in cui nessun risultato si è verificato, Lenski abbandonò “l’evoluzione in laboratorio” per dedicarsi a programmi informatici (lui usò “Avida”), che cercano di simulare i processi evolutivi in natura. Ebbe infatti buone ragioni per perdere la speranza, poiché egli calcolò che tutte le possibili mutazioni semplici devono essere già avvenute più volte, ma senza generare neanche una semplice nuova caratteristica. Ma in seguito, con grande entusiasmo, annunciò che una delle 12 popolazioni di batteri oggetto dell’esperimento, aveva acquistato l’abilità di usare il citrato sotto condizioni aerobiche.

Già nel 2008 lo scienziato anti evoluzionista Donald Batten, ipotizzò che questa nuova funzione non fosse dovuta ad una mutazione positiva, ma fosse dovuta alla distruzione/soppressione del meccanismo che sopprime l’assunzione di citrato in presenza di ossigeno. Infatti sotto condizioni anaerobiche questi batteri erano già in grado di assimilare e digerire il citrato. Successivamente, nel 2012 Lenski trovò la mutazione che aveva causato questa tanto acclamata “evoluzione” (Blount, Genomic analysis of a key innovation in an experimental Escheria coli population, Nature 489:513-518, 2012). Il citrato è infatti portato nella cellula da una proteina trasportatrice. Questa proteina è specificata dal gene trasportatore del citrato, citT, che è solitamente spento/latente in presenza di ossigeno. Molto vicini al gene citT, sono presenti geni che hanno un promotore che attiva quei geni in presenza di ossigeno. Una singola mutazione risultò nella duplicazione del promotore in una posizione che attivava il gene citT, cosicché la proteina trasportatrice del citrato era adesso prodotta in presenza di ossigeno. Altre mutazioni duplicarono il citT, facendo sì che venissero prodotti più trasportatori di citrato e quindi più citrato era trasportato. Le previsioni dell’anti evoluzionista Don Batten erano corrette: qualcosa si era rotto: il meccanismo che sopprimeva il citT in presenza di ossigeno. Le mutazioni non crearono nulla di nuovo, nessun nuovo gene, né promotore fu creato; semplicemente avvenne (per semplificare) il cosiddetto “copia e incolla” su informazioni che già erano presenti, in un processo che fece sì che il batterio non fosse più in grado di spegnere il relativo gene in presenza di ossigeno.

Dopo decine di migliaia di generazioni il batteri erano sempre batteri, infatti erano sempre batteri E.Coli.

Il Dr Lenski riportò anche altri cambi evoluzionistici durante i suoi studi, per esempio: generazioni successive crebbero più in fretta e aumentarono in dimensioni rispetto ai loro antenati, e tre geni in ogni popolazione furono osservati subire una sostituzione genetica. Dieci popolazioni svilupparono cambiamenti nell’avvolgimento del loro DNA, che è noto incidere sull’espressione genetica. Variazioni della forma si svilupparono e si evolsero tra le popolazioni. Quattro delle popolazioni, un terzo di tutte le popolazioni, evolsero difetti nei loro meccanismi di riparazione del DNA che portò a tassi di mutazione più alti.

Gli aumenti di dimensione, come dimostra lo scienziato anti evoluzionista J. Sarfati non si avvicinano neanche ad essere una prova di un aumento dell’informazione, in quanto questo aumento di dimensioni ha a che fare con la degradazione di un gene che cambia il tempo di divisione cellulare. Inoltre cambiamenti di proprietà in un organismo (altezza, velocità, peso ecc.) non possono essere usate come prove dell’evoluzione in quanto non spiegano il formarsi di nuove strutture (per una critica più dettagliata all’aumento di dimensione dei batteri “The Greatest Hoax on Earth?”, Jonathan Sarfati, p 63-65).

In poche parole il batterio E.Coli era ancora un batterio E.Coli, non si è evoluto in un altra specie di batterio.

Il tipo 3 di evoluzione richiede tanta, tantissima nuova informazione genetica. Ad esempio l’evoluzione del Saccharomyces Cerevisae (lievito) richiede ben 12.1 milioni di basi che codificano l’informazione genetica del lievito (assumendo quindi che si sia evoluto da un batterio E.Coli, il lievito ha dovuto acquisire una quantità enorme di informazione, in quanto il batterio ha “solo” 4.6 milioni di coppie di basi di DNA). Il lievito ha circa 6,000 geni, circa il 50% più dell’E.Coli. I singoli geni del lievito inoltre contengono molta più informazione rispetto ad un batterio unicellulare. Se il batterio dovesse evolversi in lievito, queste migliaia di nuovi geni contenenti migliaia di coppie di basi di nuovo codice si sarebbero tutte dovute evolvere grazie a mutazioni casuali. E il lievito è ancora un organismo unicellulare.

Per far sì che si possa evolvere un organismo multicellulare è richiesta una quantità di informazione ancora più grande. L’informazione in un verme è codificata in 97 milioni di coppie di basi di DNA le quali formano circa 19,000 geni; quindi per far sì che il lievito si evolva in un verme ci vogliono circa 13,000 geni. E per di più ogni singolo gene del verme contiene migliaia di coppie di basi in più, codificate nel DNA, rispetto ai geni del lievito. E siamo ancora alla base dell’albero della vita darwinista! Eppure anche negli animali apparentemente più semplici la quantità di nuova informazione genetica è enorme.

E’ bene enfatizzare che tutti questi esseri viventi apparentemente semplici, rispetto ai batteri, necessitano una quantità di informazione completamente nuova, ovvero informazione che prima non esisteva. Il lievito infatti, anche se sempre unicellulare, ha una struttura molto diversa e il DNA è contenuto nel nucleo.

E’ chiaro quindi che, anche solo per passare da un batterio al lievito, deve esserci stata un’enorme quantità di mutazioni che aggiungevano informazione. Il problema però di questo approccio, è che oltre a non essere fornito di alcuna prova, come scritto prima, va contro ogni forma di osservazione: infatti nella successione di migliaia di generazioni di batteri osservate per più di quarant’anni in tutto il mondo in tantissimi laboratori, tra qui quello di Lenski, non si è vista nemmeno una, risottolineiamo una, mutazione che aggiungesse informazioni.

Organismi considerati più in alto nella “scala evolutiva”, non solo hanno una complessità genetica enormemente maggiore di un batterio, ma anche impiegano molto più tempo per raggiungere l’età della riproduzione. La maggior parte dei batteri, infatti, si raddoppia da una a tre ore e in laboratorio l’E.Coli riesce a generare una nuova generazione ogni mezz’ora. Per molti mammiferi e rettili, invece, le nuove generazioni posso impiegare mesi o anni a raggiungere l’età in cui possono riprodursi. Questo significa che per i mammiferi e i rettili è necessario un tempo migliaia di volte superiore a quello per i batteri, affinché possano accumularsi mutazioni nei gameti (le cellule riproduttive). Anche le mutazioni casuali non guidate devono produrre sufficiente informazione genetica per codificare un’informazione genetica individuale ed unica come quella che caratterizza e che ha caratterizzato il DNA dell’insieme di milioni di differenti specie che sono vissute sulla terra dall’inizio della prima forma di vita. Questo includerebbe non solo tutte le specie estinte che noi conosciamo, ma anche le specie intermedie che la teoria darwinista prevede, includendo anche quelle non rivenuteci dai fossili (n.b come se ne fossero state rinvenute alcune). Inoltre gli animali più in alto nell’albero evolutivo hanno un DNA ben più complesso di quelli alla base. Ad esempio il DNA del topo ha all’incirca 2600 milioni di coppie di base e 25000 geni con dimensione media di 100.000 basi, ciò che significa che un gene di topo è venti volte più complesso nel suo codice comparato a quello di un verme. Inoltre il topo ha anche il 30% di geni in più rispetto al verme.

Il topo è solo uno dei 5487 mammiferi, ognuno dei quali ha una informazione genetica differente, questo significa che un rinoceronte ha geni differenti nel suo DNA, una mucca ha geni differenti nel suo DNA, un orso ha differenti geni nel suo DNA, e ogni differente tipo di orso ha un differente DNA con nuovi geni differenti. Ognuno di questi geni differenti contiene decine di migliaia di pezzi di codice unici e caratteristici di solo quella specie o variante di specie. L’evoluzione necessariamente implica che questi pezzi unici di codice debbano venire in esistenza come un risultato di mutazioni casuali. E non abbiamo neanche considerato i geni totalmente nuovi in ognuna delle 9,990 specie di uccelli, o i geni totalmente nuovi in ognuna delle 8734 specie di rettili, o geni totalmente nuovi in ognuna delle 31.153 specie di pesci, né abbiamo considerato i geni totalmente nuovi che caratterizzano ognuna delle oltre 100.000 specie di insetti, e nemmeno i miliardi di geni differenti ognuno costituito da migliaia di basi delle 1.700.000 specie complessive stimate esistere su questo pianeta. Per non menzionare i miliardi di differenti geni che sono esistiti nel passato e si sono estinti nel tempo. Non solo gli scienziati non hanno mai osservato il formarsi di nessuna nuova informazione genetica, ma sulle basi del calcolo delle probabilità non c’è semplicemente tempo sufficiente nei supposti 4 miliardi di anni di evoluzione per far sì che tutta l’informazione genetica contenuta nei genomi di tutte le milioni di differenti specie di batteri, funghi, piante e animali si sia formata come un semplice risultato di mutazioni casuali.

I calcoli statistici sull’impossibilità dell’evoluzione sono numerosi, e in questo articolo ne vedremo uno: il “limite dell’evoluzione di Behe”, in futuro vedremo tanti altri problemi statistici della teoria evoluzionistica, come quelli individuati da Lee Spetner, Stephen Meyer, Douglas Axe e Ann Gauger.

 

 

LE MUTAZIONI, ALLA FIN FINE TUTTE NEGATIVE

Per riassumere, praticamente ogni mutazione è deleteria: provoca malattie e morte. Quasi tutte le mutazioni infatti, come dimostra Lee Spetner, che insegò per molti anni la teoria dell’informazione al Johns Hopkins University, sono negative. Spetner mostra che quasi tutte le mutazioni causali producono cambiamenti che intaccano il codice del DNA facendo in modo che le sezioni del codice divengano meno utilizzabili, con effetti deleteri sull’intero organismo (Spetner, Not by Chance 85-160). Anche le mutazioni positive, che come abbiamo visto sono comunque distruttive, non hanno pressoché nessuna rilevanza dal punto statistico.

Questo è esattamente ciò che osserviamo accadere nel laboratorio. Come dice il professore di biologia H. Allen Orr dell’Università di Rochester: “la travolgente maggioranza di mutazioni casuali sono dannose; riducono la capacità di sopravvivere; solo una minuscola minoranza è benefica, aumentando la capacità di sopravvivere.

Per esempio, sezioni mancanti di geni e errori nelle duplicazioni DNA sono associati con una grande gamma di malattie, dalla fibrosi cistica, alla malattia di Huntington, al colesterolo alto di famiglia. Una lista di circa 10,000 esempi di mutazioni genetiche o di delezioni che sono sospette causare malattie genetiche umane è riportata sul sito online “Johns Hopkins Mendeleian Inheritance in Man”.

Nella ricerca sul cancro, si riscontra spesso che i tumori sono caratterizzati da mutazioni, e nelle cellule del cancro il tasso di mutazione è molto più alto che nelle cellule normali. Infatti la maggior parte degli organismi hanno geni il cui ruolo è quello di preservare l’informazione genetica contro mutazioni e di riparare il DNA danneggiato così da minimizzare le mutazioni stesse. Dove i geni riparatori del DNA sono in quantità ridotte per qualche fattore, il rischio di cancro e di altre malattie aumenta di molto.

Ciò che quindi riscontriamo e osserviamo negli organismi viventi, sono meccanismi funzionali a minimizzare le mutazioni. Questi meccanismi tendono a minimizzare la diversità fuori da ciò che è già codificato nel DNA. Quando avviene una mutazione, esse portano spesso alla malattia e alla morte nell’organismo; e nel prossimo articolo vedremo il perché di questo.

Quindi mentre la teoria neodarwinista vorrebbe spiegare con le mutazioni tutta l’enorme diversità degli essere viventi e la loro capacità di adattarsi, l’osservazione ci dice al contrario che sono proprio gli esemplari che non mutano che non vengono eliminati dalla selezione naturale e che quindi sopravvivono. Infatti, come sostiene lo scienziato anti evoluzionista Jerry Bergman, anche gli organismi con una mutazione positiva, in quanto in realtà comunque distruttiva, hanno il cosiddetto “fitness cost” ovvero l’effetto collaterale di tale mutazione positiva, che è sempre più grande dell’effetto benefico della mutazione. Se infatti i batteri “evoluti” dell’esperimento di Lenski fossero vissuti in natura e non in laboratorio, sarebbero stati presto eliminati, in quanto nel complesso sono diventati meno efficienti e adatti a sopravvivere.

Gli unici casi di mutazioni che provocano una reale sopravvivenza e miglioramento dell’individuo sono quei cambi epigenetici (quindi tutto già preesistente) che Lee Spetner elenca nel suo nuovo libro “The Evolution Revolution”.

L’osservazione ci dice quindi che gli organismi che non mutano sono più adatti a sopravvivere e generare una prole. Proprio l’opposto di ciò che l’evoluzionismo asserisce.

 

 

UN ESEMPIO DI PROBLEMA STATISTICO PER LA TEORIA DARWINISTA

Il famoso microbiologo anti evoluzionista Michael Behe, studiò il parassita della malaria, il Plasmodium, anche lui caratterizzato da popolazioni molto vaste. Il plasmodio infatti ha sviluppato una resistenza a tante medicine contro la malaria e alcuni umani hanno sviluppato una sorta di resistenza. Behe dimostra che tutti questi casi di adattamento, sia umani, che del Plasmodium sono dovuti ad una rottura delle strutture e non dalla nascita di strutture nuove. Per esempio la resistenza del Plasmodium alla clorochina è dovuta ad un guasto nella proteina trasportatrice che porta il veleno nel vacuolo. Behe analizza anche la resistenza del Plasmodium alla pirimetamina, la resistenza delle zanzare al DDT e la resistenza dei ratti alla warfarina. E provate a indovinare cosa è successo? Sono avvenuti tutti processi distruttivi che hanno portato ad effetti benefici.

Perché mai un evoluzionista usi esempi di distruzione per provare costruzione o meglio complessificazone ancora nessuno lo sa. Le mutazioni distruggono sempre, e per la maggior parte delle volte hanno effetti deleteri. Radiazioni ionizzanti non ti trasformeranno in un X-men, ma solamente in una massa tumorale.

Behe, in seguito, in base alle sue precise osservazioni è stato in grado di stilare alcuni calcoli probabilistici che non fanno altro che mettere ancora in più in difficoltà i darwinisti. Per motivi di spazio, non possiamo trattare qui in modo completo le sue analisi statistiche, ma questo l’analisi precisa del suo argomento avverrà negli successivi articoli.

Come commenta Don Batten sugli studi di Behe, Il Plasmodium, come microbo, raggiunge popolazioni enormi e il farmaco clorochina è utilizzato contro il plasmodio ormai da molti anni. Questo vuol dire che il parassita ha avuto tantissime opportunità per “evolversi”, in quanto più è il numero totale degli organismi e più mutazioni possono verificarsi per poi essere sottoposte alla selezione naturale. Però la resistenza alla clorochina si è verificata in modo abbastanza infrequente: passarono infatti dieci anni prima che apparisse la prima resistenza. Questo contrasto con la resistenza nei confronti di altri anti-malarici è uno dei punti principali del libro di Behe “The Edge of Evolution”. Infatti il motivo per il quale la resistenza alla clorochina avrebbe messo così tanto tempo ad apparire è che essa necessita dai 4 agli 8 amminoacidi in un trasportatore di membrana (in parole povere una pompa). Sembra infatti che la resistenza sia comparsa in quattro occasioni separate. Due particolari cambi di amminoacidi sembrano essere in comune (residuo 76 e 220), quindi due mutazioni sembrano essere necessitate in un gene. Una mutazione apparentemente non genera alcuna resistenza alla clorochina, o deve essere compensata da una seconda mutazione per limitare i danni deleteri, mentre resistere alle altre anti-malarie necessitava solamente una mutazione per ognuna di esse. Questo sembra una spiegazione ragionevole per il come mai la resistenza alla clorochina ci abbia impiegato così tanto a venire rispetto agli altri anti-malarici. Da questa osservazione Behe calcola, usando le stime dei numeri di popolazione del Plasmodio e le generazioni prese dagli evoluzionisti, la probabilità di una resistenza richiedente due mutazioni in cui solamente una non basterebbe a creare tale resistenza. Un parassita su 1020 avrà la resistenza alla clorochina. Una persona molto malata avrà 1012 parassiti e se mezzo miliardo di persone fossero infettate, avremmo 1021 parassiti, che vuol dire che ci aspetteremmo di trovare almeno una persona all’anno infettata da un parassita che ha acquistato la resistenza alla clorochina. Questi calcoli sono consistenti con le osservazioni sulla clorochina. Rispetto al Plasmodium gli umani sono estremamente più noiosi e impediti dal punto di vista delle possibilità evoluzionistiche, data la loro relativamente piccola popolazione e i lunghi tempi generazionali. Behe calcola, usando le assunzioni temporali dell’evoluzione, il numero massimo totale degli essere umani dalla supposta separazione dalle scimmie, che è 1012 individui.

Quindi ci vorrebbe un miliardo di anni per avere la possibilità di avere una mutazione doppia come quella necessitata dal Plasmodio per la resistenza alla clorochina. In altre parole, niente di più difficile di questo potrebbe accadere un organismo umanoide. Il tratto dell’anemia drepanocitica, che richiede solamente una mutazione specifica (un cambiamento di nucleotide), è comparsa de novo solo un paio di volte nella storia umana. D’altro canto, la talassemia, che richiede semplicemente la rottura di un gene dell’emoglobina, cosa che può essere ottenuta in molti modi, è comparsa centinaia di volte. Ancora queste frequenze sono consistenti con le probabilità di mutazione in una popolazione umanoide. L’evoluzione è infatti abbastanza capace di fare ciò. Uno su 1020 parassiti della malaria avrà una mutazione doppia, le probabilità per ottenere due di queste doppie mutazioni e di una su 1040. Ma questo eccede il numero totale di cellule che sono esistite sulla terra a partire da 4 miliardi di anni fa. In altre parole l’evoluzione non sarebbe mai riuscita a giungere a questo punto. Ed è proprio questo il limite dell’evoluzione che dà il nome al libro di Behe “The Edge of Evolution”. L’evoluzione dal punto di vista statistico è quindi impossibile, poiché enormi quantità di caratteristiche necessitano ancora più mutazioni di quelle necessarie per sviluppare la resistenza alla clorochina come dimostra Behe nel suo libro.

Per i calcoli di Behe l’evoluzione è quindi impossibile. Per motivi di spazio non possiamo né citare e né rispondere alle critiche ai calcoli di Behe.

 

 

LA SOLA QUANTITA’ DI INFORMAZIONE GENETICA METTE IN CRISI LA TEORIA DARWINISTA:

L’improbabilità statistica dell’evoluzione diventa ancora più ovvia quando consideriamo l’enorme quantità di dettagliata informazione genetica codificata nell’unico e personale DNA di ogni specie, che è il fondamento dei milioni di differenti tipi di piante e animali che abitano sulla terra. Una commissione governativa dell’Australia nel 2009 ha pubblicato un documento (A.D. Chapman, Numbers of Living Species in Australia and the World, Department of the Enviroment, Water, Heritage and the Arts, Canberra, Australia, 2009, p.7-11.) in cui annotava che esistono 1,899,567 differente specie riportate in documenti scientifici, tra cui:

5,487 differenti specie di mammiferi,

9,990 differenti specie di uccelli

8,734 differenti specie di rettili

6,515 differenti specie di anfibi

31,153 differenti specie di pesci

47,000 differenti specie di crostacei

100,000 differenti specie di insetti

102,248 differenti specie di aracnidi

85,000 differenti specie di molluschi

310,129 differenti specie di piante

98,998 differenti specie di funghi

7,634 differenti specie di batteri

Oltre a queste esistono 1,086,670 altri tipi noti di organismi.

Questa enorme diversità di vita deriva dal fatto che ognuno di questi organismi possiede un’informazione genetica più o meno diversa. Secondo la teoria Darwinista tutta questa nuova informazione per produrre occhi, gambe, braccia, ali, pelle, petali, e altro sono comparsi per caso. Infatti questa diversità di informazione genetica è così elevata che i genomi di due differenti ceppi di un’unica specie di batteri E.Coli sono stati scoperti avere una diversità di ben 72,304 coppie di informazione che codificano le basi azotate (Journal of Molecular Biology, Vol. 394, no 4 2009: p.644-652)

E siamo ancora a organismi unicellulari, è quindi impossibile per la mente umana capire la quantità di informazione esistente oggi su questo pianeta.

È stato stimato basandosi sulla diversità di specie nei reperti fossili che circa tra il 98% e il 99% di tutte le specie mai esistite siano ora estinte (Evolution 101, Patterns of Macroevolution 2009).

In poche parole sono esistite circa dai 100 ai 200 milioni di differenti specie, delle quali, secondo la teoria darwinista, quasi tutte si sono evolute negli ultimi 600 milioni di anni (G.Lawton, Uprooting Darwin’s Tree, New Scientist, 24/6/2009, p.34-39).

Tutto questo sta a significare che di media ogni 3 anni una nuova specie si debba produrre per mezzo dell’evoluzione. Adesso date le milioni di specie che oggi esistono nel mondo la possibilità di osservare nuova informazione genetica durante questi circa 50 anni di attenta osservazione scientifica dovrebbe essere abbastanza alta. Ma di queste nuove informazioni non si è finora vista nemmeno l’ombra, neppure un singolo esempio di qualche nuovo organo o struttura intermedia, nessun braccio intermedio, nessun occhio intermedio, niente.

E’ da ricordare per i lettori meno esperti che le 18,000 specie scoperte ogni anno, completamente formate, già esistenti, in quasi tutte in regioni remote del nostro pianeta, non sono assolutamente una prova dell’evoluzione.

O anche che la continua degenerazione del DNA di molte specie animali dà origine a una parte della popolazione di tali specie, non più in grado di riprodursi con la parte restante. Anche se tecnicamente tale nuova popolazione si può definire una nuova specie, questo non può essere considerato un esempio di evoluzione.

Detto questo, la cosa importane da tenere in mente e che l’unica cosa che gli scienziati stanno riscontrando è: 1) una continua estinzione di specie e 2) una continua perdita di informazione.

Come dice il famoso biologo E.O. Wilson, ogni anno perdiamo circa il 0.25 % delle specie rimanenti sulla Terra. O come dice lo scienziato Alan Cooper “gli studi sul DNA antico ci hanno rivelato che la perdita di diversità genetica di molte specie che ancora oggi vivono è estremamente grave”.

 

 PER RIASSUMERE

  • Nessun esempio di evoluzione di tipo 3 è stato mai osservato. 
  • Secondo le previsioni darwiniste, e data l’enorme quantità di informazione genetica, e il tempo limitato della vita sulla terra, dovremmo essere in grado di osservare esempi di complessificazione.
  • Tutte le mutazioni comportano una perdita di informazione e sono dunque distruttive. Anche quelle positive sono distruttive e comportano il “Fitness Cost”.
  • Gli scienziati costantemente osservano una continua perdita e distruzione dell’informazione genetica, esattamente l’opposto di ciò che la teoria dell’evoluzione si aspetterebbe di vedere
  • I biologi stanno ancora cercando di trovare un meccanismo che sia in grado di spiegare il tipo 3 di evoluzione. Al giorno d’oggi gli scienziati non hanno alcuna spiegazione di come questa immensa informazione genetica che noi osserviamo sia venuta in esistenza.
  • E’ esistita un’enorme informazione genetica nel passato e di essa quasi tutta è stata perduta.
  • Esistono molti calcoli che dimostrano l’impossibilità statistica del meccanismo evolutivo (ne vedremo altri nella parte 2)

Amedeo Da Pra e Edoardo Da Pra

12 pensieri su “INTRODUZIONE ALL’ANTI EVOLUZIONISMO – PARTE 1

  1. Articolo ricco d’informazioni ed esaustivo. Complimenti !

    Una curiosità. Cosa rispondere a quei credenti (anche scienziati) che non sostengono il darwinismo o neodarwinismo, ma, tuttavia, sostengono che l’evoluzione sia un fatto ?

    "Mi piace"

    1. Ciao Salvo, grazie mille per il commento. Dunque, la prima cosa da fare è portare argomentazioni scientifiche che: 1) dimostrino l’impossibilità dell’evoluzione 2) confutino le supposte “prove” dell’evoluzione. Inoltre va spiegato come la teoria di un disegno intelligente sia la spiegazione più plausibile.
      In ogni caso evoluzionismo e neodarwinismo sono in generale usati come sinonimi

      "Mi piace"

  2. Innanzitutto, grazie per questo articolo molto competente e interessante. Premetto che sono un credente che tutto sommato ritiene che l’evoluzione sia vera. Io lo ritengo senza averne la matematica certezza, non sono sicuro che sia ultimamente dimostrata, tuttavia mi sembra abbastanza plausibile. In effetti ritengo buono l’intento di mostrare come non possa ancora essere assunta come una verità incontrovertibile, ma ho delle perplessità sul fatto che abbia senso fare una crociata contro la teoria dell’evoluzione; ma vado con ordine con le mie considerazioni. La prima è che trovo da un lato particolarmente brillante e acuta la logica argomentativa di questa parte in particolare, cioè mostrare distinzioni all’interno delle diverse prove dell’evoluzione che vengono esibite, a questo proposito intando vi domando in quale categoria andrebbe introdotta l’evoluzione empiricamente osseravata dai coniugi Grant? Da un altro lato, invece, trovo che finisca in un’esagerazione: evidentemente non si può pensare che l’evoluzione sia l’emergere di qualcosa di assolutamente nuovo, ovviamente ogni cosa che emerge nel mondo era già presente nelle sue cause (una causa deve già contenere tanto quanto almeno il suo effetto), e questo è un principio metafisico, più che biologico, per cui mi sembra poco caritatevole attribuire agli evoluzionisti il proposito di dimostrare questo. Per carità, magari qualcuno ha anche questo impegno metafisico, ma non è necessario per parlare di evoluzione. Io penso che per parlare di evoluzione sia sufficiente parlare di specie animali diverse in tempi diversi la cui esistenza non dipenda da atti creatori distinti. Ipotizziamo (faccio un esempio stupido, mi importa qui il concetto): nel Cretaceo c’erano le marmotte e non c’erano le nutrie, oggi ci sono le nutrie ma non le marmotte; analizzando fossili di marmotta scopriamo che c’è una forte somiglianza tra marmotte e nutrie e sulla base di questo ipotizziamo (ovviamente non dimostriamo) che Dio non abbia creato due volte, una volta il mondo intero con le marmotte e poi le nutrie, con atti distinti, ma che abbia creato da principio il mondo le nutrie, ma nelle loro cause, cioè abbia creato quelle cose che snocciolandosi nel tempo avrebbero poi fatto emergere le nutrie; in questa catena figurano a un certo punto anche le marmotte. Ecco che in questo caso parliamo di evoluzione, ma non parliamo di qualcosa che venga fuori come un’assoluta novità, perché essa era in realtà nascosta fin dalla creazione del mondo nelle cause che poi la produrranno, secondo il progetto della Creazione. In questo senso è scorretto chiedere all’evoluzione per forza che faccia vedere l’emergere di qualcosa di assolutamente nuovo. Evoluzione e Creazione sono concetti molto ampi e generici, che possono essere diversamente declinati e solo estremizzandoli sono in contraddizione. È vero che se pensassi che l’evoluzione significasse che un gene che assolutamente non era all’improvviso compare allora dovrei pensarvi una contraddizione, ma questa cosa è scartata già a livello metafisico. Così ci può essere contraddizione con l’evoluzione in quanto tale se io penso che Dio crei ogni specie con un atto distinto, o magari ogni creatura, ma non pare che sia così. Piuttosto sembra che l’evoluzione rettamente concepita sia quasi il necessario complemento della Creazione, nel senso che l’evoluzione dice il come di quel che che è la Creazione. Riporto tre passi estremamente interessanti del Catechismo della Chiesa Cattolica:
    306 Dio è il Padrone sovrano del suo disegno. Però, per realizzarlo, si serve anche della cooperazione delle creature. Questo non è un segno di debolezza, bensì della grandezza e della bontà di Dio onnipotente. Infatti Dio alle sue creature non dona soltanto l’esistenza, ma anche la dignità di agire esse stesse, di essere causa e principio le une delle altre, e di collaborare in tal modo al compimento del suo disegno.
    308 Dio agisce in tutto l’agire delle sue creature: è una verità inseparabile dalla fede in Dio Creatore. Egli è la causa prima che opera nelle e per mezzo delle cause seconde: “È Dio infatti che suscita” in noi “il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (⇒ Fil 2,13) [Cf ⇒ 1Cor 12,6 ]. Lungi dallo sminuire la dignità della creatura, questa verità la accresce. Infatti la creatura, tratta dal nulla dalla potenza, dalla sapienza e dalla bontà di Dio, niente può se è separata dalla propria origine, perché “la creatura senza il Creatore svanisce”; [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 36] ancor meno può raggiungere il suo fine ultimo senza l’aiuto della grazia [Cf ⇒ Mt 19,26; ⇒ Gv 15,5; ⇒ Fil 4,13 ].
    310 Ma perché Dio non ha creato un mondo a tal punto perfetto da non potervi essere alcun male? Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore [Cf San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, 25, 6]. Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo “in stato di via” verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione [Cf San Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, 3, 71].
    Ecco che se proviamo a concepire l’evoluzione come il particolare modo in cui esercitano il proprio potere alcune cause seconde (cioè i viventi escluso l’uomo) allora possiamo pensare, appunto, che Creazione ed evoluzione non siano affatto disgiunte. Qualcuno potrebbe dire che allora si dovrebbe dimostrare che l’evoluzione è solo perfettiva, ma si sbaglierebbe perché l’evoluzione sarebbe perfettiva se non ci fosse stato il peccato originale. E questa non sarebbe un’ipotesi ad hoc, ma sarebbe contenuta in quei tre articoli: anche l’uomo sarebbe un collaboratore della creazione, una causa seconda, ma la prima a essere libera, libera di mettere in pericolo la Creazione stessa.
    Vero è che altro rischio nel parlare di evoluzione è quello di eliminare il primato dell’uomo. Ma anche questo in realtà è un problema che si risolve subito. Tenendo fermo ai principi già esposti, basta mostrare come ciò che è nell’uomo non può essere pensato come già presente nei suoi antenati meramente biologici. Sicché dovremo pensare che invece l’anima sia stata altrimenti introdotta. Così, potremo pensare Dio e la creazione come collaboratori nella creazione dell’uomo, l’una mettendoci il corpo (il fango, la terra, l’argilla, che diventa il corpo umano ma che è per eccellenza il simbolo della creazione in generale), Dio insufflandoci la vita, l’anima. In realtà, come si vedeva dai passi riportati è sempre Dio che crea, ma lo fa anche con cause seconde. Dobbiamo cioè pensare comunque un’unità di progetto, nell’uomo – non un dualismo che vede anima e corpo unirsi dopo essere stati separatamente creati, ma di qua si divaga. In questa unità, tuttavia, diventa quindi comprensibile come mai si manifesti una continuità morfologica, l’evoluzione, anche circa la biologia umana, unita a una discontinuità ontologica, cioè che l’uomo è essenzialmente altro dagli altri animali, per via della sua anima, cioè è un animale razionale, l’unico. Questa cosa a me pare bellissima, perché ci fa vedere l’uomo da un lato pienamente appartenente alla Creazione, dall’altro tutt’altro da essa, perché ha qualcosa che non c’è in tutto il resto della Creazione, perché gli è data direttamente da Dio, cioè già qui a immagine del Figlio di Dio Gesù, uomo e Dio, generato sia da Dio sia da una donna.
    Basta, chiudo qui il mio, spero non del tutto sgradito, apologo all’evoluzione in quanto creazione.

    P.S. ci tengo a precisare che io interpreto il mio modo di leggere Evoluzione e Creazione, di cui sono in gran parte debitore al mio professore di Filosofia morale, non come un esser sceso a compromessi con il mondo per il fatto di non riuscire a confutare l’evoluzione, ma come una mia ricerca di essere sempre più fedele alla verità e alla Chiesa. Oso pensare che nel favore che l’evoluzione incontra in me ci siano più ragioni di fede e teologiche che scientifiche in senso stretto.

    Piace a 1 persona

  3. Mauro, grazie per il tuo commento. Ciò che i Grant hanno osservato sono delle piccole modificazioni in dimensione del becco dei fringuelli. Il tutto può essere spiegato da un antenato comune con una varietà genetica molto vasta, che nel tempo ha permesso una speciazione. Questo esempio ricadrebbe quindi nel tipo 1 di evoluzione. Se vuoi approfondire il tema della speciazione puoi leggere il mio articolo pubblicato sul Comitato Antievoluzionista: https://antidarwin.wordpress.com/2014/11/17/piccoli-antievoluzionisti-crescono1parte/
    Quando scrivi: ” evidentemente non si può pensare che l’evoluzione sia l’emergere di qualcosa di assolutamente nuovo” dipende cosa intendi per totalmente nuovo. In ogni caso tipo 3 di evoluzione non asserisce per forza che si debba formare qualcosa di nuovo totalmente ex nihilo (teoricamente sarebbe ex nihilo anche se si evolvesse da una strurttura, ma tengo la tua definizione). Che una nuova struttura sia venuta da una stuttura intermedia (preesistente) o da nessuna struttura (avresti esempi?) c’è sempre bisogno di un’aggiunta di informazioni (evol 3). Il tipo 3 di evol. è semplicemente la condizione necessaria per elaborare una prova dell’evoluzione: dato che si asserisce che tutti gli animali siano venuti da una cellula primordiale, risulta ovvio come la cellula primordiale non possedesse già le ali per far volare un uccello o gli organi e gli apparati degli animali più complessi. Ne consegue che se vuoi provare che una cosa più semplice diventi più complessa devi portare un esempio empirico di tale fenomeno. Che poi questa complessificazione debba venire da qualcosa di preesistente non cambia. Deve essere quindi trovato un esempio di una mutazione che aggiunga informazione genetica all’organismo (per capire che cosa sia esattamente l’informazione puoi leggere il nostro articolo https://apologeticaecreazione.wordpress.com/2015/12/11/argument-from-information/ ). In ogni caso, potrebbe interessarti come D.Axe abbia dimostrato l’impossibilità della formazione di un gene, sia che si formasse da un altro gene esistente e sia da una zona neutra (duplicata) del DNA (c’è tutto scritto nella parte due di questa introduzione all’antievoluzionismo).
    E’ proprio la tua frase “ovviamente ogni cosa che emerge nel mondo era già presente nelle sue cause” che confuta l’evoluzionismo. Infatti come tu stesso dici “ma nelle loro cause, cioè abbia creato quelle cose che snocciolandosi nel tempo avrebbero poi fatto emergere le nutrie” l’evoluzione sarebbe possibile se (uso il tuo esempio) le marmotte avessero la varietà genetica per creare le nutrie. Quello che dici tu succede, e sono tutti esempi di evoluzione 1. Ad esempio è plausibile che i cani avessero un antenato comune, il quale aveva nel suo DNA la possibilità di avere una prole con una grande varietà di caratteristiche. Nel tempo la prole ha perso questa varietà, divenendo capace solo di avere una prole con la sua specifica varietà. Possiamo chiamare questo fenomeno sotto il nome di involuzione.
    Il grande problema è che solo casi di microevoluzione possono essere spiegati con l’involuzione (antenato razze canine), ma non casi di macroevoluzione: spiegami come un invuolzione di un mircobo possa creare una giraffa o un elefante? Postulare questo va 1) contro l’evidenza: i batteri formano altri batteri e non elefanti (questo è abbastanza significativo) e 2) va contro la teoria stessa dell’evoluzione che asserisce che l’antenato comune degli animali fosse una cellula molto semplice, ma, per spiegare tutta la varietà animale con un’involuzione di una cellula, significa postulare che questa cellula sia più complessa di tutta la varietà del regno animale messa assieme.
    Le frasi del CCC sono molto belle e dal punto di vista filosofico non escludo che sia possibile un’evoluzione di tipo teistica, il problema è però scientifico.
    Che Dio ti benedica fratello in Cristo e grazie tante per l’interesse e il commento.
    Amedeo ed Edoardo

    "Mi piace"

  4. Anzitutto vi ringrazio per la risposta molto seria. Comprendo bene che il tipo 3 nel vostro discorso fungeva solo da prova ideale che occorrerebbe esibire per sostenere che l’evoluzione sia dimostrata; tuttavia quello che mi chiedevo è se non sia una pretesa da un lato troppo esigente e dall’altro lato non necessaria. Quello che intendevo dire con l’argomento che chiamava in causa l’ex nihilo era sostanzialmente che qualsiasi prova si voglia legittimamente richiedere dell’evoluzione deve per forza rientrare comunque in un meccanismo per cui quanto scaturisce era comunque già presente in potenza, o meglio era già presenta, prima che apparisse esplicitamente la possibilità implicita della sua apparizione esplicita a partire da ciò che già era. In questo senso, i confini tra le tre tipologie, pur non eliminandosi, sfumano. Sono tutti tipi di evoluzione in cui ciò che è presente si configura in modo nuovo per apparire sotto altra forma. Ciò in cui si differenzierebbero sarebbe per così dire il range di enti chiamati in causa dalla riconfigurazione, o per meglio dire il livello a cui si innesca la riconfigurazione dei presenti. Per esempio, pensando il DNA come un sistema gerarchizzato, come pare essere, non pare impossibile pensare che forme di speciazione ed evoluzione si offrano a partire da mutate relazioni in questa gerarchia. Per esempio mi sembra sia stato osservato di un insetto che nacque con le zampe al posto delle antenne, Gould suggerì giustamente che era improbabile che questo significasse che l’informazione responsabile delle zampe fosse andata distrutta, mentre era nata tutta una nuova informazione che aveva ricostruito le zampe al posto delle antenne, ma si sarebbe dovuto pensare che vi sono segmenti di DNA che si occupano di come e dove far codificare altri, cioè geni incaricati di “posizionare”, per esempio, il prodotto elaborato da altri gruppi di geni. Questo è solo un esempio che ci offre però lo spunto di pensare come specie molto diverse tra loro possano essere legate pur continuando a pensare che essere erano già presenti nelle loro cause, prima della loro comparsa. Mi rendo conto che è un esempio ancora molto grezzo, ma mi serve qui ora solo per far intuire come semplicemente complessificando la stratificazione che va dal DNA all’espressione genetica di una specie possiamo pensare qualcosa che chiameremmo evoluzione che però è concettualmente analogo alle prime due tipologie. Lo stesso scambio di informazione genetica tra organismi, cioè la tipologia 2, sembra a me particolarmente rilevante, proprio in quanto non è creazione di nuova informazione, epperò ha effetti potenzialmente molto vasti, mi sembra di capire. Quello che conta, in fin dei conti, ai fini dell’evoluzione, non è la creazione di nuova informazione genetica, ma la possibilità che l’informazione genetica esistente complessivamente nel mondo e tutto ciò che con essa può entrare in dialogo possa spostarsi e ricombinarsi dando origine a tentativi di vita inediti, pur con lo stesso materiale. Spero di non fare fantascienza, ma non si può nemmeno escludere, secondo me, che nuove forme di vita emerse in questo modo siano in grado, attraverso il loro particolare dialogo trasformativo con l’ambiente di mettere in circolo nuovi materiali di dialogo genetico che erano presenti nel mondo ma non erano ancora resi accessibili in questa loro potenzialità. Non posso scommettere sulla scientificità di quanto ho detto, ma non mi è necessario, volevo solo offrire un’immagine di come si possa pensare che l’evoluzione non sia da identificare con la tipologia 3, perché la complessità che possiamo supporre nel mondo è tale da rendere potenzialmente esplosivi meccanismi più semplici e d’altro canto il meccanismo di selezione naturale agisce a un livello gerarchico molto alto, è un selezionatore molto generico, da un certo punto di vista, sicché nelle forme di vita così selezionate si possono segretamente nascondere geni inutili che diventeranno magari ciò che causerà ad altri di essere selezionati in futuro o viceversa. Ripeto dunque la mia tesi per l’ultima volta, cioè che mi sembra allora che tutta la varietà di specie che si può osservare nel mondo e nella storia naturale possa essere ipotizzata fiorire attraverso meccanismi meno radicali della tipologia, sicché le prove delle tipologie 1 e 2, pur non essendo una prova definitiva dell’evoluzione, sono tuttavia a loro modo cariche di una loro validità nel supportare questa teoria. Il fatto che poi non siano una prova definitiva, a mio modo di vedere non è grande danno, poiché tendo a leggere l’evoluzione come un fatto eminentemente storico, come un evento, più che come un processo meccanico e seriale, segno della radicale non autisticità degli organismi e degli enti materiali in generale e della loro essenziale multipotenzialità.

    "Mi piace"

  5. Grazie Mauro per la tua risposta, ma come avevo scritto, il concetto di avere già in potenza un’altra specie significa che l’antenato comune ha il corredo genetico di tutto il regno animale. E ciò renderebbe l’animale primordiale l’essere più complesso mai esistito, ma questo è esattamente l’opposto di ciò che asserisce la teoria dell’evoluzione. L’esempio del Drosophila melanogaster, ovvero dei moscerini, non può essere usato come prova dell’evoluzione. Ma prima di spiegarti brevemente il perché è necessario che tu capisca che il tipo 3 di evoluzione è una condizione assolutamente necessaria. Ad esempio, quando dici che il tipo due possa spiegare molti processi evolutivo, a mio avviso, non tieni a mente che la teoria darwinista asserisca che il tutto sia venuto da una cellula primordiale, che nel tempo ha acquistato una notevole quantità di informazioni. Poiché bisogna spiegare come si siano formate le informazioni che codificano per le strutture di ogni organismo, non puoi dirmi che la causa di esse sia l’evoluzione di tipo 2, per il semplice fatto che questo tipo di evoluzione necessità già l’esistenza di questa informazione. Per renderla ancora più semplice, se la prima forma di vita primordiale aveva un gene e l’uomo ne ha dieci (non è vero, è solo per fare un esempio), devi spiegare come da uno tu sia arrivato a 10, e non puoi rispondermi dicendo che un altro animale abbia trasmesso la sua informazione ad un altro animale, al fine di conferire a quest’ultimo dieci geni. Mentre avresti dovuto spiegare l’origine dei geni, asserisci che si sono sommati due genomi diversi. Ma non fai altro che spostare il problema.
    Tornando ai moscerini il vero problema è che per aver ottenuto questa forma di “evoluzione”, ovvero, per aver creato nel moscerino due coppie di ali, è stato necessario combinare in laboratorio ben tre mutazioni diverse, e perciò è statisticamente impossibile che questo accada in natura. Nessuno nega che il genoma, se cambiato, può dare nuove funzioni (la semplifico ignorando il problema epigenetico), il fatto è che per creare queste nuove funzioni, è necessario architettare i cambiamenti, come nel caso in cui correggi un testo con significato in diversi punti al fine di conferire al testo in questione un nuovo significato. Ma questo in natura non accade.
    Per di più, quello che i libri di testo non dicono, è che la seconda coppia di ali non era funzionante, il che voleva dire che per renderle funzionanti sarebbero state necessitate ulteriori mutazioni specifiche. Oltre a questo, sotto l’ottica della selezione naturale, questi moscerini mutati sono fortemente indeboliti, poiché il secondo paio di ali impediva a loro di volare.
    Per di più le ali nuove erano una mera coppia di quelle vecchie, e ne consegue che non possono essere considerate una nuova struttura, come d’altronde una duplicazione genetica non può essere considerata nuova informazione.

    Potresti spiegarmi cosa intendi quando dici che tramite una perdita di funzioni e specificità (evoluzione di tipo 1) si possano formare nuove strutture? (Ricordati che ogni struttura funzionante ha una sua specifica sezione del DNA che codifica per essa.)
    Spero di essere stato di aiuto, se non sei d’accordo, dillo pure che continuiamo la discussione.

    "Mi piace"

  6. Bellisimo post, e penso mi possa aiutare molto con i miei compagni di medicina, con i quali più volte sono sceso a confronti diretti. Penso che sia molto utile non semplicemente scrivere queste cose ma diffonderle perché la maggior parte della gente ignora, e preferisce credere a qualsiasi cosa piuttosto che alla Parola di Dio. Cercherò di diffondere in prima persona! Grazie molte e Dio vi continui a benedire in quello che fate.

    Piace a 1 persona

Lascia un commento